
Silvana Mangano è la Madonna ne Il Decameron di Pasolini
“È come se ci fossero due donne in me: una è quella che tu ami, l’altra… non posso dirlo.”
Silvana Mangano è una figura mitologica.

Bella di una bellezza fiera e raffinata, ora giunonica ora spigolosa, ora raggiante ora oscura. Nella sua vita e nel mito si rincorrono due immagini di segno opposto, due donne, due Mangano: da una parte la bomba sexy, dall’altra il cigno elegante, da una parte la mondina Silvana, dall’altra la madre dell’efebo Tadzio, da una parte la risaia del secondo dopoguerra, dall’altra il lusso del Lido, da una parte Riso Amaro del ciociaro sciupafemmine De Santis, dall’altra Morte a Venezia del quasi (erroneamente considerato) misogino milanese Visconti. Una donna in due: un po’ il carnale oggetto del desiderio, un po’ la femminilità mentale, l’una in lotta con l’altra. La seconda, quella algida, sembra vergognarsi della prima: questa sarà l’eterna tragedia di Silvana Mangano.

Come sia riuscita a sopravvivere nei panni di una donna in cui non si identificava con un tale successo, orgoglio e riservatezza, ma soprattutto come abbia potuto essere una delle più grandi attrici della storia del cinema disprezzando il suo essere attrice resterà sempre un mistero per me.
Una magia.
Mezza sicula mezza inglese -padre e madre erano originari rispettivamente di Palermo e Croydon-, Silvana viene da una storia comune a tutte le ballerine infelici: una smisurata passione per la danza, che rimane il suo unico amore per tutta la vita, anche dopo l’incidente che la costringe ad abbandonare la scuola di ballo.
QUELLA CHE TU AMI

Benedetta Rita Hayworth. È il 1947 quando il regista Giuseppe De Santis, adocchiato un gruppo di mondine canterine in stazione a Torino, viene colto dall’impulso di girare un film femminile ambientato in risaia.
Ma l’Italia è in fermento, la guerra è finita e si guarda al futuro a partire da quel mondo oltreoceano, tanto lontano ma finalmente -grazie al cinema- tanto vicino e quasi tangibile, che proprio in quel periodo distribuisce nelle sale di mezzo mondo il film simbolo dell’epoca, Gilda, con protagonista l’atomica rossa, Rita Hayworth.


È proprio a partire da lei che De Santis inizia a cercare l’eroina perfetta per quello che sarebbe diventato il suo capolavoro e mette così a ferro e fuoco il paese affinché si trovi la perfetta Hayworth italiana. Ed è così che Silvana Mangano, ottiene il suo primo ruolo da protagonista, nonché il più famoso ed iconico non solo della sua carriera, ma della donna italiana nel cinema. Un ruolo indimenticato ed indimenticabile, imitato all’infinito, rivisitato, studiato, interpretato. Un ruolo che lei amò e odiò al tempo stesso, che le cambiò la vita e gliene impose un’altra, che la salvò e la condannò insieme. Un ruolo così lontano dalla sua natura, e che non riuscì mai, neppure dopo 30 anni di donne algide e misteriose, immerse tra la mitologia di Pasolini e gli interni lussuosi di Visconti, a scrollarsi di dosso. Un ruolo meraviglioso, insieme sua croce e delizia.
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È strano pensare alla carriera di Silvana Mangano senza legarla indissolubilmente alla sua vita, perché non c’è personaggio -per quanto azzardato possa apparire- che non porti con sé anche solo uno spillo del suo grande dramma interiore.

Strappata alla sua giovinezza ed al primo amore -in questo caso il ballo, Marcello Mastroianni venne dopo-, ne vediamo la figura prorompente stagliarsi tra le acque ed i canneti di una risaia nordovestina, icona femminista, guida fiera e sensuale, ma inesperta ed insicura, di un gruppo di mondine agguerrite, più camerate dei soldati, in cerca della felicità in Riso Amaro. E poi la ritroviamo due anni dopo in un’analoga situazione (nella sua estrema varietà) nei panni di Anna, melodramma di Alberto Lattuada, con protagonista la stessa squadra di Riso Amaro -Mangano, Vallone, Gassman-: il dualismo di Silvana è qui esposto all’estremo, da ballerina di night club a suora, dalla prigionia alla libertà (con un’interessante riflessione su cosa sia la vera libertà). Divenuta ormai un’icona, seguono i ruoli più disparati, il matrimonio felice/infelice con il produttore Dino DeLaurentis -che l’adorò moltissimo- e gli amatissimi figli (“la mia interpretazione più bella, non trovate?”), cesura più che mai netta tra la prima donna, “quella che tu ami”, e la seconda “l’altra, non posso dirlo”.
L’ALTRA
L’altra faccia di Silvana Mangano è la ricerca inquieta di libertà, intesa come viaggio interiore, rottura dalla vita, divorzio dal cinema, sua croce e delizia.

Dopo uno spettacolare successo nell’epoca d’oro della commedia all’italiana -come dimenticare la simpaticissima prostituta Costantina ne La Grande Guerra (1959), sempre accanto a Gassman? o tutte quelle ragazze altezzose e sbarazzine che le consentirono spesso di cimentarsi anche in scene di ballo?- che la vide al fianco dei grandissimi Gassman, Tognazzi, Sordi e Manfredi (giusto per citare i più indimenticabili), nel 1967 Pier Paolo Pasolini la vuole per sé, come volto del suo mondo mitologico, e le offre il ruolo di Giocasta in Edipo Re, seguito -un anno dopo- da quello di Lucia in Teorema.

Con gli anni ’70, dimenticate ormai le forme prosperose di vent’anni prima (simbolo di un’Italia libera, rigogliosa e gioiosa del tempo), e l’identificazione nell’atomica mondina (il cui mito però non cadde mai), è Luchino Visconti ad adottare il nuovo spirito di Silvana, malleandola un po’ tra le sue abili mani d’artista e facendone la raffinatissima dama di poche parole e dalla femminilità riservata che conosciamo grazie a parte della sua trilogia tedesca -la Mangano è protagonista di Morte a Venezia (1971) e Ludwig (1972)- e del suo penultimo film, Gruppo di famiglia in un interno (1974).

Della Silvana Mangano che il pubblico affezionato ricorda -quasi glamour nella sua vivissima italianità ’50s- non c’è più assolutamente nulla, eppure, i suoi occhi malinconici ce lo assicurano, è sempre la stessa.

(1967), di Vittorio De Sica
Il volto un po’ più scavato, l’età un po’ più matura, il portamento un po’ più composto, ma quello sguardo fiero, inquieto, selvatico e indomabile rimane immutato, a significare che ci sono due donne in lei, e non importa quale sia quella che tu ami: probabilmente lei non ne ama nessuna.
La verità è che si trattò di un’uccellino in gabbia, di un’attrice che non avrebbe mai voluto fare del cinema, e che non solo lo fece, ma addirittura si impegnò ed eccelse brillantemente nell’arte a cui si dedicò per oltre trent’anni, e fu amata –così amata– tanto che non poté mai lasciarlo. Incapace di abbandonare la gabbia dorata di cui fu sempre prigioniera, abbandonò sé stessa.

C’è una scena in Riso Amaro, in cui lei corre sotto la pioggia, trascinata dalla frenesia del momento: il volto è scomposto in una smorfia che non si sa se rida o pianga… Ecco, allo stessa maniera io trovo oltremodo difficile concludere questo articolo: Silvana Mangano è stata la più grande attrice italiana senza neanche mai voler essere attrice, una delle più belle donne al mondo senza neanche mai voler essere ricordata come tale, e -dal suo ruolo d’esordio- simbolo intramontabile della bellezza e della rinascita tutta femminile di un paese bambino, che l’amò come una figlia prima e una mamma dopo, senza mai spiegarsi perché fosse così difficile trattenerla, leggerne i pensieri, coglierne l’essenza.
Oggi, ad 88 anni dalla sua nascita e a 29 dalla sua scomparsa, parlare di Silvana è quasi come tentare di decifrare ancora il sorriso della Gioconda, parlare dell’ineffabile, del perfetto, del mistero. Parlare di mitologia.
Da qualcuno che ti ama tanto,
Carmen
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