
Una cieca passione adulterina nella Sicilia rocciosa, una tensione che si spegne e si accende tra le campagne notturne, un tenero amore nella deserta Roma razionalista e una donna sola al mondo nella Ravenna più disumanizzata che si possa immaginare: con queste quattro immagini si possono descrivere brevemente le ipnotizzanti sensazioni generate da L’avventura (1960), La Notte (1961), L’Eclisse (1962) e Deserto Rosso (1964), i quattro film fondanti la poetica dell’incomunicabilità, o la tetralogia desertica di Michelangelo Antonioni, più noto nel mondo per la regia di Blow Up (1966) o Zabriskie Point (1970), film che dialogano principalmente con l’annoiata gioventù hippie del tempo.

Una costante, a caratterizzare la continuità della tetralogia: la voce roca e la bellezza dolce e graffiante di Monica Vitti, una mezzaluna, una leonessa di miele, una nobile zingara esistezialista, una sirena muta dei giorni e delle notti nella silenziosa Italia borghese degli anni sessanta.
E poi la solitudine, il vuoto, il paesaggio ostile e straordinario, nemico e specchio dei sentimenti dei protagonisti, solitamente coppie che non si amano più, coppie che non potrebbero amarsi e coppie che si sfiorano per poco e senza certezze.
Coppie legate da un filo nascosto in un esteso e deserto campo minato, invisibile sotto l’architettura razionalista bruciata dal sole romano (L’Eclisse) o le taglienti geometrie naturali degli scogli mediterranei (L’Avventura).

Coppie di individui soli al mondo, soli con loro stessi e soprattutto soli insieme, nonostante tutto, perché la desolazione del singolo perdura comunque, al di là degli scambi di sguardi effimeri e infiniti, delle folli e barocche festine spinte sull’onda de la dolce vita del periodo e dell’apparente frenesia della vita dopo il boom.
Niente, non c’è niente che allevi la solitudine degli uomini e (soprattutto) delle donne di Antonioni, ex bambini viziati cresciuti nella noia, o ex bambini poveri imborghesiti controvoglia, ingannati dalla troppa cultura, dalla troppa riflessività, dai troppi eleganti abitini nero su bianco, bianco su nero.
Politically scorrect (sulle case popolari de L’Avventura si alternano murales del PCI a quelli dell’MSI), disinteressati al sociale e all’altro, ma non per egoismo -no-, giusto soltanto per scarsità di energie, spese in troppo pensare o non spese affatto, affogate nell’inedia insicura.

E pensare che sono bellissimi, come del resto tutti gli infelici che si rispettino: la bellezza della Vitti, di Delon, di Ferzetti e Mastroianni genera e nasce dalla vanitas (intesa come natura morta, caducità…) insoddisfazione, svalutazione, perdizione, confusione e -insomma- solitudine, inganno, dolore.
Una bellezza che volta le spalle ai belli. Una bellezza che taglia con le sue cento lame ed apre e ricuce cento(mila) ferite.
E soprattutto, una bellezza inconsapevole, troppo persa nel deserto (Rosso?) della vita.

A volte si specchiano, questi uomini e queste donne, ma per lo più dormono, discutono, s’affacciano a grandi finestre da salotti spogli, s’accarezzano i capelli tra le cianfrusaglie delle scrivanie e si guardano, senza parlare, perché quando si vive davvero, non c’è proprio niente niente da dire.
E se ne stanno inermi, a gridare con gli occhi e con il vuoto, innamorandosi dell’altro e mai di sé, arrendendosi alla sensazione di essere piccoli, piccoli piccoli su un vasto palcoscenico naturale, liberi di essere puerili ancora per una volta (e un’altra e un’altra ancora).

Questo Antonioni dei primi ‘60s è così: non ci sono molte canzonette (ma c’è la voce di Mina, femme fatale della canzone italiana senza tempo), non c’è un riferimento, non c’è Italia, ma solo scandaglio minuzioso di anime senza sesso né porto quiete, aggrappate alla vita e sospinte da un violento temporale dentro.
Ogni tanto, a ricordarci dove siamo, un carretto di frutta, una lavatrice Candy, un barattolo di Ultracolor, una fotografia di Papa Giovanni, una rara monaca, un chiosco Motta, un famoso complesso architettonico (un personaggio a sé stante).
Il paesaggio è il protagonista di qualsiasi vicenda, generoso abbastanza da ospitare -magari controvoglia- questa gente bellissima e sola, e da permetterle di specchiarcisi e riconoscersi per ciò che sono: pedine, infondo, mosse dal vento della bella Trinacria (L’Avventura) o dalla canicola infernale delle periferie romane (L’Eclisse).

Grazie ad un bianco e nero netto e pulito, non troppo contrastato da risultare espressionista, né risciacquato nelle acque (bellissime e) popolari del neorealismo, gli affascinanti protagonisti del cinema di questo Michelangelo del XX secolo si stagliano perfettamente sullo sfondo, come i fiori chimici di Man Ray (primi anni Trenta) tra le dita della pallida modella, come lucide note musicali vellutate sul rigo color panna.
E così Antonioni è un poeta visivo, un poeta della vita, un poeta dell’esistenza e soprattutto di tutto ciò che di inquietante ed incomunicabile essa porta inevitabilmente con sé, nel deserto senza nome di un paese senza nome, di un’Italia che è solo paesaggio mozzafiato in comunicazione con le persone, solo sentimento, solo emozione, solo silenziosa emozione, solo cinema.
Carmen
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