
16 maggio 1943.
I ragazzi di allora ricordano ancora l’atmosfera di quel giorno, quando in alcune sale (oggi diremmo in selected theatres) uscì Ossessione, il primo lungometraggio dell’allora trentenne Luchino Visconti.
I testimoni parlano di essere usciti dalle sale come storditi e pervasi dall’atmosfera cupa e sensuale di un’Italia in cui non sapevano di vivere e che non erano certo preparati ad immaginare, abituati ai racconti dell’attenta e manipolativa cronaca fascista. Un’Italia immaginaria, tanto era povera e sgangherata. Questa non è l’Italia! scrisse la critica di regime, è un’Italia di fantasia! Eppure, nell’attraversare quelle due fosche ore, tanto intriganti e tormentate, a qualcuno parvero familiari l’ambiente povero e scarno, la vita grama e agra e le frustrazioni dei giovani protagonisti della pellicola. Qual era la verità? Dove stava l’inghippo?
Per comprendere pienamente l’effetto di Ossessione sul pubblico e sulla società italiana, però, è necessario fare un salto indietro, ai tempi immediatamente precedenti l’uscita del film, quelli del cinema fascista (i telefoni bianchi, il calligrafismo, il kolossal storico): come ci si sarebbe potuti immaginare -abituati come si era ad un mondo fantastico e patinato, spurio di qualsiasi ruga e neo– di trovarsi catapultati in un tale vortice di polvere e macerie (letterali e figurate) e per di più in pieno conflitto mondiale? Il film di Visconti sovverte tutte le regole del cinema del tempo, eppure, quando gli viene affibbiata l’etichetta di primo film neorealista, per il regista è una sorpresa: alla fine si trattava sempre di un artista abituato a lavorare inserito in un contesto di regime (così come Rossellini, altro grande nome prossimo al neorealismo). Quindi Ossessione non nasce come un film intenzionato a dichiararsi alternativo alla dottrina e alla censura del tempo -tant’è che addirittura italianizza quello che è il materiale del romanzo di Cain (Il postino suona sempre due volte), da cui trae ispirazione per l’opera- ma riesce a suscitare le più disparate reazioni da parte del pubblico e della critica. Se il primo è restìo ad accettare tanta innovazione e diversità rispetto a ciò a cui era abituato ad assistere al cinema, la seconda accoglie invece quasi all’unanimità il film come gran prodotto, con curiosità e apprezzamento.


Ma veniamo al film. I protagonisti sono -e questo è un dato molto particolare- due celeberrimi e bellissimi attori del periodo, i divi dei telefoni bianchi Massimo Girotti e Clara Calamai.
Molto in voga ai tempi del divismo italiano, lei -classe 1909- solo un anno prima, mostrava il (primo) seno nudo (del cinema italiano) ad Amedeo Nazzari e Osvaldo Valenti ne La cena delle beffe, di Alessandro Blasetti: era considerata bellissima e molto talentuosa, apprezzata dalla critica come dal pubblico e destinata ad una lunga carriera costellata di ruoli iconici -si pensi alla prostituta de Le notti bianche (1957) accanto a un giovanissimo Mastroianni, sempre di Visconti, o al ruolo di protagonista in Profondo Rosso (1975) di Dario Argento.
Lui, invece -classe 1918- era un pallanuotista della Lazio il cui allenatore lavorava come aiutante per le scenografie di Mario Soldati: è proprio tramite questi che otterrà il suo primo ruolo nel 1939 in Dora Nelson, accanto alla diva Assia Noris. Ed è grazie a questo esordio, seguito dalla parte da protagonista in Un pilota ritorna (di Roberto Rossellini, 1941), e La corona di ferro (di Alessandro Blasetti, 1941), che nel ‘42 Visconti, innamoratosi di lui, lo vuole assolutamente come feticcio per il suo primo film. Seguiranno i ruoli più disparati in opere di Rossellini (Desiderio), Camerini (Molti sogni per le strade), De Santis (Caccia Tragica, Roma: Ore 11, Un marito per Anna Zaccheo, La Strada Lunga Un Anno), De Sica (La porta del cielo), Zampa (Anni difficili), Germi (Gioventù perduta, In Nome della Legge), Lattuada (Lettere di una novizia), Antonioni (Cronaca di un amore), Pietrangeli (Souvenir d’Italie), ancora Visconti (Senso), Pasolini (Teorema, Medea), Bertolucci (Ultimo tango a Parigi), Scola (Passione d’amore) e Ozpetek (La finestra di fronte è il suo ultimo ruolo). Non mancano incursioni nel cinema francese.


E così capiamo quanto Ossessione fosse in realtà un film perfettamente inserito nel contesto del cinema fascista, in qualche modo: i suoi interpreti sono sempre gli ex miti dei telefoni bianchi (solo ripuliti di tutti gli orpelli divistici), il suo regista era prima critico e sceneggiatore al servizio anche del cinema di regime. Eppure, quest’opera cade come cesura nel 1943 stesso, nella guerra, nella storia e nell’Italia intera, come una mina esplosiva: nasce infatti una maniera di fare cinema completamente nuova, non asservita a nessuno se non a sé stessa.

Ma ciò che più ha colpito e ancora colpisce di questo film, non sono tanto gli ambienti spogli e molto diversi da quelli mostrati fino a quel momento, i campi inariditi, le strade malmesse, il decadimento architettonico di una bellissima Ferrara assolata, popolosa eppure deserta, la povertà sdoganata dalle scarpe bucate di Girotti o dall’unico abito nero e sobrio della Calamai, bensì la scelta di Visconti di manipolare il romanzo di Cain a suo piacimento e a favore del proprio gusto per il sensuale.
“Quando ti sei accorto che mi piacevi?”
“Subito. Quando ti ho chiesto da mangiare… E tu non mi hai risposto.”
Inizia così la storia di due amanti portati alla deriva dalla passione, tra le rive del Po e le pietre assolate della città, quasi a rincorrersi per fuggire il desiderio, poi cedendovi e scappando ancora.
“Lo sai tu, che cosa sia un uomo vecchio? Non puoi immaginarlo, non puoi sapere che cosa sia per una donna vivere con un uomo vecchio… Tutte le volte che mi tocca, con quelle mani… Vorrei mettermi a urlare. Tu… Tu sei giovane.. Non sono una signora” dice Giovanna quasi tra sé e sé dopo l’amore. E Gino la guarda e l’ammira, quella donna schiava di una vita che non vuole e libera di un bisogno di evasione. “Meriteresti di essere una signora tu.”

Visconti rivoluziona innanzitutto l’idea di personaggio, che non è più una marionetta nelle mani di una storia, come nel cinema precedente, bensì un uomo vivo, una donna viva: un essere umano mosso dalle passioni e dai tormenti che muovono la vita vera. La donna interpretata da Clara Calamai, Giovanna, è un unicum nel panorama cinematografico del tempo, una pioniera della serie di donne sessualmente libere che avrebbero costellato poi la storia del cinema successiva. Sposata per forza con un uomo brutto, grasso, trascurato e negligente nei suoi confronti, nota per la prima volta il giovane e bellissimo Gino (Massimo Girotti), simbolo per lei di purezza e novità, che si presenta al suo spaccio sfatto e sudato in una canottiera sgualcita, così bello, giovane, prestante e, in una parola, così diverso e lontano dal degrado a cui era abituata. S’innesca immediatamente tra i due un gioco di desiderio senza filtri, scandito per prima volta dagli impulsi sensuali di una donna che non ha paura, ma bisogno del corpo di un uomo, disposta a tutto per possederlo. Non ci sono filtri, abbellimenti, né particolari tattiche seduttive: la passione di Giovanna si esprime quasi innocentemente, tramite il suo canticchiare Fiorin Fiorello, un fresco e giovanile successo di Carlo Buti del 1938. Un motivetto antitetico e paradossale nella situazione che andrà ad innescare, quando, accostatosi allo stipite della porta della cucina, Gino trova la donna ad attenderlo nel suo abito sgualcito, le gambe aperte a penzoloni ai lati del tavolo, l’aria assorta.

Ciò che la passione cieca porterà questi due a compiere è lasciato alla narrazione del film, da quell’incontro allo spaccio sino alla deriva, nei pressi del delta del Po, scenario per antonomasia del neorealismo di lì in avanti, e soprattutto ambiente esplorato e riesplorato da tutti i grandi autori dell’incomunicabilità, della difficoltà, e dell’amore. Ma non sono solo l’amore adulterino e il desiderio femminile a fare da padroni nella storia: c’è anche la guerra (che con maestria non si nomina mai, ma si può constatare dalla condizione degli abiti dei protagonisti, delle strade e delle vetrine dei negozi), la povertà, la società del tempo e infine (ma non meno importante), l’omosessualità, personificata nello Spagnolo (l’espressivo e sfortunato Elio Matarazzo), la cui subdola passione per Gino (palese anche ai critici e detrattori del tempo) è il riflesso e la trasposizione cinematografica di quella di Visconti stesso per Girotti, al quale dedica abbondanti e intensi primi piani.

Un film del 1943 che spezza il 1943 e getta le basi del neorealismo prima e di tutto il cinema a venire poi, per quel suo je ne sais quoi che, piaccia o non piaccia, non riesce a scollare lo spettatore, come una calamita.
Scriveva Antonio Pietrangeli nel 1942, annunciando la lavorazione della pellicola, alla quale prese parte: Ossessione sarà un film in cui non si vedranno educande, non principi consorti, non milionari affetti dal taedium vitae: ma tutta un’umanità spoglia, scarna, avida, sensuale e accanita fatta così dalla quotidiana lotta per l’esistenza e per la soddisfazione di istinti irrefrenabili […] Creature umane, i cui tratti palpitano con così dolorosa verità, non saprebbero muoversi nelle impalcature dipinte dei teatri di posa, ma tra alberi veri, nell’erba, nella campagna, nei prati, tra gli elementi naturali, o nelle zone accidentate e spezzate della periferia cittadina dove ogni sasso, ogni angolo srecciato, ogni viottolo, ogni cortile narra, nell’usura della sua fisionomia originaria, tutta la lunga storia del quotidiano rovello degli uomini.
Ricorre oggi il 20esimo anniversario dalla scomparsa di Clara Calamai (7 settembre 1909 – 21 settembre 1998), sua protagonista, nonché intramontabile diva di un periodo cinematografico sepolto nella polvere dell’oblio, tra le macerie di un’Italia che c’era e di un Italia che ci sarà -ma infondo ancora così vivo ai giorni nostri.
Per chi voglia cercarlo… sa dove trovarlo.
Carmen
Interessante, non conoscevo questa storia del cinema italiano! Grazie!
"Mi piace""Mi piace"
L’ha ribloggato su io la conoscevo bene.
"Mi piace""Mi piace"