Fino all’osso. “There’s before bones and all and there’s after…”, dice ad un certo punto lo spettrale personaggio di Michael Stuhlbarg. Quando mangi una persona fino all’osso non c’è punto di ritorno. Così come non c’è dopo aver visto il film, che – non esagero – ha cambiato la traiettoria della mia vita. È come se ogni fase della mia vita sia stata vissuta per arrivare fin qua, a Bones and All. Ero una persona completamente diversa prima di entrare in sala.

Questa dovrebbe essere una recensione dell’opera che è finalmente valsa un riconoscimento nel circuito festivaliero a Luca Guadagnino, solo che trattandosi di lui le parole mancano o sono un groviglio di emozioni. Tramite la sua arte è in grado di toccare corde che non credevo nemmeno potessero essere toccate, di parlare direttamente alla mia anima, come se mi conoscesse meglio di me stessa. Il Cinema di Guadagnino mi rende vulnerabile, sarà sempre complicato parlarne.

La mia relazione con questo progetto, in base alle informazioni e le dichiarazioni che ho lentamente accumulato, l’ho affrontata con una consapevolezza: che mi avrebbe fatto allo stesso tempo profondamente male e bene. E proprio così è stato.

Vincitore del Leone d’Argento per la miglior regia, Bones and All è l’adattamento dell’omonimo romanzo di Camille De Angelis: David Kajganich firma la sceneggiatura di un coming of age on the road che percorre i tumulti della vita di Maren (Taylor Russell), una giovane ragazza costretta ad imparare a vivere ai margini della società dopo che la sua natura cannibale (ri)emerge. Abbandonata dal padre nel momento in cui il suo istinto da “eater” prende il sopravvento, Maren intraprende il suo viaggio. Sullo sfondo dell’America di Reagan, dove non sembra esserci spazio per gli emarginati, fa degli incontri, scopre di non essere l’unica cannibale. Fra questi vi è Lee (Timothée Chalamet). Fra i due sboccia l’amore.

Due giovani in contrasto, i cui destini si incrociano in fasi diverse della loro crescita. Per Maren è tutto nuovo, una scoperta continua condita con l’iniziale paura di tutto ciò che è ignoto e il bisogno di ritagliarsi un posto nel mondo. Lee, d’altro canto, è famelico, sicuro di sé e disposto a guidare Maren ad abbracciare la sua natura. Entrambi non sanno ancora chi/cosa sono e chi/cosa vorranno essere, Bones and All è anche un viaggio interiore.

Guadagnino ama profondamente i suoi personaggi. Li accompagna, li avvolge, li segue quasi come se stesse vegliando su di loro. Il suo è uno sguardo incontaminato e molto attento, ciò che decide di mostrare e su cui si sofferma è privo di qualsiasi giudizio, si nutre delle loro emozioni e osserva – il nostro voyeur – fino a dove sono disposti a spingersi. La gioventù, tema a lui tanto caro, che nonostante tutto ha ancora una scelta, a differenza degli adulti che sembrano essere rassegnati nella disperazione in cui (si) sono abbandonati.

Il cannibalismo è lo strumento tramite il quale viene data una forma all’impossibilità dell’amore. Perché sì, Bones and All è un film sull’amore, in tutte le sue forme. La violenza, il punto massimo di non ritorno, per raccontare l’amore. L’amore respingente e distruttivo dei genitori. L’amore esitante e timido che nasce fra i due giovani.

Il cannibalismo perché forse, alla fine, l’amore deve essere vissuto così. E se posso divorare qualcuno fino all’osso, l’amore può saziarmi e nutrirmi fino a tenermi in vita per poi consumarmi. Guadagnino parla della sua creatura ponendo una domanda: “And lastly, and most importantly, when will I be able to find myself in the gaze of the other?”, affidando la risposta agli sguardi che si scambiano Maren e Lee. Ci perdiamo insieme a loro, ci ritroviamo e ci perdiamo di nuovo, consapevoli che ovunque andremo saremo sempre a casa.

Come Alexia in Titane (2021), che sfoga in atti di violenza la sua incapacità di relazionarsi intimamente con altre persone, Maren e Lee si cibano di corpi umani per colmare il vuoto dato dalla mancanza di legami affettivi. Servirsi del genere horror per esprimere e riversare un malessere. Questa sofferenza ha un volume altissimo per il mio cuore. Così come l’amore che eventualmente ne deriva.

La chimica e l’intesa crescente fra i due protagonisti si fa sempre più scoppiettante e sanguinolenta. Non posso immaginare due interpreti diversi da Taylor Russell, così pura ed inconsapevole ma allo stesso tempo feroce e decisa, un meritatissimo Premio Mastroianni; e Timothée Chalamet, che (ri)concedendosi completamente all’immaginario del regista palermitano non si risparmia e dà il meglio di sé. E l’uso della pellicola restituisce quel sapore retro degli anni ‘80, alternando i toni più cupi a quelli più dreamy e saturati delle sequenze più romantiche, fino a che orrore e passione si intrecciano diventando un unico corpo.

Guadagnino va per la prima volta lontano, percorre il Midwest, arriva ai margini della società americana Reaganiana e racconta gli ultimi mantenendo l’eleganza e la raffinatezza che lo contraddistinguono. Non c’è mai altezzosità, Bones and All gronda di rispetto, empatia e genuina curiosità. Come ogni road movie è imprevedibile, non sappiamo dove ci porterà, viaggiamo con Maren e Lee, insieme a loro facciamo macabri incontri (il tempo passa ma il ricordo nitido di Mark Rylance, Michael Stuhlbarg, David Gordon Green e Chloë Sevigny continua a perseguitarmi), ci perdiamo e ci ritroviamo.

Sì, Guadagnino va lontano, in ogni senso, vola altissimo, eppure resta ancorato a noi. A Venezia, che negli anni è stata così respingente nei confronti delle sue creature. Ingenuamente ho creduto che puntasse ad altri concorsi, Berlino o Cannes, ho dato per scontato che il Lido non fosse nel suo mirino. E invece. Nonostante l’accoglienza passata lui è tornato. Si è fidato e ci ha fatto un grande dono.

Al quesito: “Qual è il tuo film preferito di Guadagnino?” preferirei mozzarmi la lingua pur di non rispondere. Alla fine I love all my children equally, sceglierne uno significherebbe fare un torto ad un altro. Tuttavia, in Bones and All si avverte un senso di compiutezza, un equilibrio perfetto che senza l’esistenza delle opere precedenti non ci sarebbe mai stato. Bones and All è un po’ figlio dei suoi predecessori.

Guadagnino rende possibile l’impossibile, infatti non passa giorno senza chiedermi come sia riuscito a girare in quel modo la scena finale. Quei frammenti di immagini, ma anche quelle immagini frammentate, quelle scelte mirate. Il chaos. Il silenzio. Quell’armonia sanguinolenta.

È raro ritrovarsi e sentirsi compresi nell’arte di qualcun altro. Per me questo è Luca Guadagnino. È tanto, forse tutto. Il suo Cinema è sicuramente il mio posto nel mondo.

E per più di un minuto, molto più di un minuto, mi ha fatta sentire a casa.

Marika