LETTURA CONSIGLIATA A CHI È IN PARI CON LA SERIE

Per mitologia si intende quell’insieme di elaborazione che comprime l’ambito fantastico, religioso o esoterico di una determinata tradizione culturale. Se l’Antica Grecia aveva il suo Olimpo e i Norreni avevano il loro Valhalla, la nostra società a chi può rifarsi? Come lo spieghi il Tardo Capitalismo delle inflazioni, degli imprenditori e le loro cripto valute? Se di epoca vuota tanto si vuol parlare, che di concreto ha solo la valenza del privilegio e fa grandi i burattinai della fuffa, come lo narri a chi non ne capisce un’emerita mazza?

Ai posteri serve una mitologia innovativa, calzante, che valga tutto pur parlando di niente. Così nel giugno del 2018 la HBO manda in onda il pilot di Succession e finisce che mette nelle stesse braghe di tela chiunque abbia premuto play mosso da innocente curiosità: “Come la spiego ‘sta serie a chi non la guarda?” iniziano a chiedersi.

You have my dick in your hand, Ken. But I’ve got yours in mine. So let’s get real.

Questa solo una delle tante trovate, metaforiche e non, che costellano una sceneggiatura brillante di vaghezza biblica e unità aristoteliche. Il ciclo infinito nel quale Jesse Armstrong ci ha irretito parte dall’agnizione (topos dell’improvvisa consapevolezza della realtà o dell’entità che una persona/personaggio rappresenta) progredendo nella peripezia, sia pure questa assurdamente pompata in un mondo a noi sconosciuto, quasi alieno, come quello della famiglia Roy. Non si tratta soltanto di una successione di fatto, la tragedia di Succession è anche l’eterno succedersi del proprio sviluppo: ricchezza, avidità, tradimento e catarsi. Viene da chiedersi come sia possibile che ad oggi, anno 2023, si sia ancora incollati alla televisione per seguire il perenne ritorno di azioni non ben definitive risolte sempre allo stesso modo.

L’improvvisa consapevolezza è Kendall Roy (Jeremy Strong) che pugnala alle spalle i fratelli cercando il benestare del padre, è Tom Wambsgans (Matthew Macfadyen) che tradisce Siobhan Roy (Sarah Snook) per una posizione sicura, è la madre, Caroline Collingwood (Harriet Walter), che taglia fuori dagli interessi i propri figli e tutto in nome dell’Unico che farebbe impallidire il Saturno di Goya, quel gran pezzo di merda narcisista di Logan Roy (affectionate, Brian Cox).

Viene da chiedersi cosa possa ammaliare tanto il pubblico nel sorbirsi ore e ore di tutta questa gente egoriferita e terribile quando il ricalco si fa tanto insistente, salvo poi accorgersi che nella ripetizione si compie il giro e tornando indietro, crea il capolavoro. Allora succede che vengano rilasciati episodi come “Connor’s Wedding” e la catarsi trova l’esplosione nell’evento più atteso di sempre, quello ovvio e telefonato dal titolo stesso. Nel momento meno costruito, si rende l’anticlimax il colpo di scena per eccellenza e in Succession – che di scadere nell’ovvietà non ne ha voglia – non dura l’attimo scontato di uno shock value, ma permane quanto l’estenuante vissuto di un lutto in tutte le sue fasi congestionate in una singola ora televisiva.

Succession, stagione 4 episodio 3.

Solo in seguito, la tensione andrà a scemare e come un eco la serie sta procedendo e procederà (la conclusione dell’Epopea Armstrongiana è prevista per il 28 maggio) ricalcando i soliti doppiogiochismi su azioni e cooperative, le cui oggettività pratiche non ci sono date sapere. È in questo marasma ritrito, che dichiarazioni come quelle di Sarah Snook assumono di maggiore significato (Sarah Snook Didn’t Know Succession Was Ending Until the Final Table Read).

Tuttavia, come si è detto sopra, ciò non rappresenta un problema né un limite, perché Succession sorprende in antitesi e si muove d’inerzia.

“Sono sempre gli episodi con un matrimonio di mezzo”, ho letto in giro. Niente di più vero, se consideriamo che nel teatro romano e nella sua satira, il matrimonio è un convivio e il convivio può diventare una facile mattanza portando nel surreale Olimpo moderno, quel sentore grottesco che si legge facilmente in Seneca o Petronio. Il primo, nello specifico, scriveva dell’élite romana: “Vomunt ut edant, edunt ut vomant” Vomitano per mangiare e mangiano per vomitare. Ad oggi confermata come falsa credenza, non si può comunque ignorare la potenza di un concetto simile, il quale più che perplimere gli antichi interessati, lascia di stucco noi. È oscena, è esuberante e nell’esagerazione, è rimasta nell’immaginario collettivo per secoli.

 “Boar on the Floor” in quanto scena topica ne trae la stessa valenza. Dal sollazzo iniziale con cui il ciak si apre, la lenta discesa a una più macabra atmosfera diventa inevitabile. È impattante e inaspettata, incornicia un simbolo di derisione, umiliazione e predominanza. Se la frase di Seneca partiva come goliardica critica al benestante, Logan Roy, infliggendo un simile supplizio, innalza il ponte che lega la satira grottesca alla tragedia. La corsia sulla quale muoversi in ambo i generi è cementata di scene analoghe e così allacciarmi al Tito Andronico di Shakespeare viene assolutamente naturale, poiché di questo dualismo, ne ha l’essenza – nonché opera affine al classico romano per struttura tragica (Seneca) e per l’uso del linguaggio (Ovidio).

Altro elaborato presente nella serie è quello che ricalca il correlativo oggettivo. Definito da Thomas Stearns Eliot nel primo Novecento, è un concetto poetico secondo il quale una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi possono diventare vettori emotivi, pronti a formulare e concretizzare un’emozione particolare. Come principio primitivo, le fiabe ne sono piene, basti pensare alla mela di Biancaneve, ad esempio, o alla scarpetta di Cenerentola. Quando il correlativo oggettivo incontra la cornice drammatica si attiva il simbolismo – lo stesso che viene esteticamente inserito nei poster ufficiali usando prima il dipinto “Caccia alla Tigre” di Rubens e poi il “Dante e Virgilio all’Inferno” di Bouguereau.

Le cicatrici di Logan Roy sono un correlativo oggettivo: ricordo di violenze e umiliazioni. Picchia il cane finché non morde, una giustifica verso sé stesso (ma mai giustificato al pubblico) a dimostrazione di ciò che è diventato: una presumibile vittima trasformata in carnefice.

L’elemento dell’acqua per Kendall Roy è un correlativo oggettivo: simbolo di continua rinascita o morte a seconda del peso che porta. A volte è una salvezza, altre una condanna, ma scrivere il numero uno su di una riva in attesa che l’acqua giunga a cancellarlo, diventa un modo per sopprimere l’ombra ingombrante del padre.

Succession, stagione 4 episodio 6.

Seguono poi i ripetuti simbolismi sul cibo. Dal topos dell’opulenza, della ricchezza e dell’ingordigia fino al detto siamo quello che mangiamo, ma se è verità identificarsi in ciò che mettiamo nel piatto, i fratelli Roy sono involucro unico dei loro abusi e dei traumi che ne sono derivati. La Lonely Cake di Connor Roy è un correlativo oggettivo: una torta sbagliata che non doveva esser servita al suo stesso matrimonio, perché troppo simile al Pan di Spagna che il padre gli fece ingurgitare per una settimana intera – la prima vissuta in solitudine senza più la madre, allontanata a forza dalla famiglia e poi internata in un istituto d’igiene mentale.

La scatola dei doughnuts spedita da Logan ai figli è un correlativo oggettivo ed il risvolto è tale da scambiare un gesto ritenuto universalmente gentile, con l’idea che i fratelli hanno del proprio padre. Si tratta di un atto aggressivo, è un guanto di sfida, una dichiarazione di guerra. Roman Roy (Kieran Culkin), dall’alto del suo scranno da amletico buffone, si domanda se siano avvelenati, perché è un ritorno all’infanzia, ai dolci che si gustavano tanto da bambini nei giorni in cui si univa quel sapore all’abuso minorile e all’onnipotenza del genitore.

Ed infine, anche lo scorpione che Tom regala a Shiv è un correlativo oggettivo: precursore della rottura imminente, dell’avversione stagnante, nonché fautore di una delle migliori scene della quarta stagione, quella del balcone.

Succession, stagione 4 episodio 7.

Dopo mitologia e classicismi, il Bardo non poteva mancare come ultima analisi essendo, di fatto, materia prima dalla quale si attinge a piene mani. Le possibilità di lettura diventano in questo caso ancora più disparate e ognuna è valida a seconda dell’evento e delle maschere indossate.

Succession è Shakespeare ma interscambiabile e nelle molteplici scene dove il nulla narrativo pare prendere il sopravvento, nasce il gioco dell’assurdo, il consimile al teatro pirandelliano: l’uno, nessuno e centomila.

L’uno che chiami per nome, il nessuno che è il vuoto a colmarli e le centomila interfacce con le quali ci è permesso scoprire le loro eccentriche falsità.

Se Logan Roy è il Re Tiranno che nel deperimento della vecchiaia – ulteriormente incattivito dagli imbarazzanti impedimenti e limiti fisici – diventa un Re Lear senza scrupoli, Tom Wambsgans, nel momento in cui gli si accosta, muta nel suo Giullare. Il personaggio di Macfadyen nasce con l’indole del buffone, finché non gli si affianca un pagliaccio più pagliaccio di lui. Con Greg Hirsch (Nicholas Braun), il duo raggiunge vette pari a quelle di Dogberry e Verges (Much Ado About Nothing), ma tra i due, resta Tom colui che cela e alimenta un animo d’impronta più drammatica.

Il marito piacione la cui firma ufficiale e il vicarious embarrassment, diventa materia da tragedia nel confronto con la moglie. Si assiste impotenti alla decadenza di un matrimonio: i due coniugi Macbeth che del drama si accaparrano soltanto la fatalità delle loro azioni, il peso delle colpe mai confessate e la necessità di ferirsi come unica via d’uscita. Shiv Roy non ha convinto il marito a compiere sanguinosi crimini per ottenere il potere, ma come Lady Macbeth – e in un contesto più moderno dello sviluppo – avrebbe volentieri barattato la sua fedina penale pur d’assicurarsi il proprio status quo. E poiché in Succession non possono esserci eserciti coesi, ma solo vaghi opportunisti, questi sono i raccolti delle passate discordie, quando il tradimento di Tom saltava fuori come da manuale al fine di concludere una terza stagione in bellezza e per lui di salvarsi la pelle, etichettandosi come il più improbabile degli Jago.

Succession, stagione 3 episodio 9.

E se d’inganni e sotterfugi vogliamo continuare a parlare, bisognerà prendere in ballo il nostro number one boy. Armstrong mantiene la sua creatura satirica per scelta, ma non parodia mai sé stessa e se non scadi in quest’ultima, passare dalla commedia dark alla tragicità diventa un gioco furbescamente facile. Neanche te ne accorgi quando Kendall da Amleto dell’Upper East Side claudicante avanza come un goffo Riccardo III. Il suo dubbio non è tanto vendicare il padre, quanto rivendicare sé stesso come unico successore e se già una volta aveva tentato l’impresa con il vecchio ancora in vita:

This is the day his reign ends.

Kendall non molla e avventatamente (forse troppo) torna a parlare di una sola testa e una sola corona.

Succession, stagione 4 episodio 7.

Sappiamo tutti come finisce il Riccardo III e cosa vada compiendo pur d’ottenere ciò che vuole e che pensa di meritare per diritto di nascita. Viene da chiedersi se sia questo lo squalo che Logan si premurava di plasmare, il killer della finanza, dei media e dell’alto borgo newyorkese, che uscirà vittorioso dalla guerra di successione. Dopotutto, con Shiv si ha spesso l’impressione di partire in vantaggio per astuzia, ma al primo imprevisto, cadere rovinosamente sul gradino di un mondo fatto di soli uomini, non è più metafora ma realtà. E Roman – che dell’Amleto mantiene il logorante legame con il fantasma del padre dal quale non riesce a recidersi – pare esser destinato a restare un eterno principe Hal impossibilitato a raggiungere il proprio compimento da Henry V.

Succession, stagione 4 episodio 8.

Al sipario e ai suoi canoni si aggiunge, poi, una forza motrice imperscrutabile, non al pari della Divina Provvidenza di Manzoni, ma quasi. Nelle tragedie di Shakespeare esiste la natura intrinseca del disastro. Non si tratta soltanto dell’ovvietà del genere scelto, ma dell’ineffabile destino scritto sulla testa del personaggio. Qualsiasi siano le azioni che intraprenderà per evitarlo, sarà impossibilitato a cambiare il corso della storia, maledetto al solo fine tragico di un compimento non del tutto divino, ma altrettanto fatale. Più tenterà di modificarlo in meglio e più lo forzerà, avvicinandosi come una falena alla fiamma ardente. La macchia di sangue che sporca la mano di Macbeth e che nemmeno un intero mare potrebbe lavar via, è un marchio apposto e decreta la sua condanna sin dall’inizio dell’opera. Amleto che nel dubbio non agisce, diventa di per sé una scelta e dunque, un atto in più devoluto alla propria fine. “Credo ch’un spirto del mio sangue pianga la colpa che là giù cotanto costa” scriveva Dante secoli prima.

Ancora una volta e per questa valenza, il tutto è niente. Succession inesorabile persiste nella non-azione portando la catastrofe a compimento. In fin dei conti, c’è la beffa e la burla al ricordo delle Idi di Marzo, pur conoscendo bene il pragmatismo del Giulio Cesare: “Non è nelle stelle che è conservato il nostro destino, ma in noi stessi”. Il peggio che può accaderci, insomma, è l’improvvisa consapevolezza di una vita determinata e non malleabile come c’era dato sperare. Siamo noi i fautori del nostro declino e i fratelli Roy rappresentano questo, sono questo: divinità al di sopra del popolo, ma in balia della matrice che li ha resi tali.

In due semplici battute Jesse Armstrong sintetizza dunque l’avvenire in tutto il suo infausto incedere.

Per essere una serie che parla solo di pacchetti azionari, Succession dimostra d’essere molto più di quel che appare e decide di beffare gli spettatori facendo del proprio fumo tutto il suo arrosto. Non di meno, metafora perfetta della società che incarna e che le ha dato vita.

Se l’Antica Grecia aveva il suo Olimpo e i Norreni avevano il loro Valhalla, a chi possiamo rifarci, dunque, noi poveri mortali?

Dategli panem et circenses, sia fatta la Waystar Royco e la volontà della Roy Family.

Laura

Succession, stagione 3 episodio 9.

Se l’argomento Succession x Shakespeare vi interessa, qui potete trovare qualche articolo che farà al caso vostro.

“You’re Pirates!” || “Of Roys and Kings” || “It’s King Lear for the modern generation”