Se pensate d’essere gli unici che danno sola importanza ai fallimenti limitando i propri successi nello scantinato, sappiate, sin da subito, che avrete un rivale molto potente ed il suo nome è Steve Martin. Non c’è partita e poco conviene fare a gara su questo, perché posso assicurarvi che sarà una competizione già persa in partenza!

 Per la regia di Morgan Neville e prodotta da AppleTv, “STEVE! (martin): a documentary in 2 pieces” è proprio così che ingrana la marcia: con il rivoluzionario della stand-up comedy americana (in tempi ardui di propaganda iper-conservatrice) che esordisce dicendo a chiare lettere di non avere talenti e che, se avesse avuto una guida, forse tutto questo successo non l’avrebbe mai ottenuto; soprattutto – punto essenziale per comprendere l’artista, ma anche l’uomo – quel successo, qualora fosse giunto, non sarebbe mai perdurato. Anche oggi, nella sua splendida casa in California, potendo raccontare ben quattro decenni di onoratissima carriera, Steve Martin è convinto che il successo sia inconsistente e possa svanire da un momento all’altro – con l’unica differenza, che non è più il ragazzo ansioso e solitario degli anni 70 a parlare e quando Steve Martin si volta al passato, può farlo con criterio, razionalità e un poco d’accondiscendenza in più per ogni sbaglio che gli ha cementato la via rendendolo la persona che è oggi.

Now. Let’s repeat the non-conformists’ oath: I promise to be different! [audience repeats] I promise to be unique! [audience repeats] I promise not to repeat things other people say!

THEN

Quel dilettante, uno dei più fortunati al mondo, lo additavano i critici; un dilettante che le provava tutte pur di trovare la formula giusta alla risata e per qualcuno come Martin, che ha sempre sostenuto di non possedere abilità elitarie, reinventarsi, studiarsi, idearsi, era diventato fin da subito, non un capriccio, ma una necessità. Dall’illusionismo ai giochi di magia, imparati mentre lavorava a Disneyland osservando spettacoli di cabaret per giornate intere, fino alla stand-up comedy – purché ci fosse un palcoscenico dove azzardare, come uno scienziato, l’equazione riutilizzabile e malleabile che tenesse in scacco il pubblico. Niente di conciliabile alla nostra idea moderna del comico a cui esce naturale far ridere, o è divertente per nascita e per natura, tanto da esserlo sia fuori che sul palco.

Per trovare il repertorio giusto, Steve Martin ha creato il personaggio giusto, quel wild and crazy guy con le orecchie da coniglio e un pesce gommato per asciugamano; l’opposto di ciò che era sempre stato, ossia un ragazzo riservato e timido che combatteva contro gli attacchi d’ansia quando ancora, quel batticuore e terrore, non avevano nome, né diagnosi o spiegazioni.

Cercando l’appoggio del pubblico, destreggiandosi sfidando la massa nell’attenzione e nell’intelligenza, Martin ha iniziato a perfezionarsi diventando il pifferaio magico facendo di loro i suoi topini – e che il pubblico lo seguisse oltre i cabaret, per le strade fin dentro una piscina pur di ridere, pur d’averlo a portata di braccio e sentirsi parte di un gruppo coeso, fu ciò che successe davvero! In un’epoca dove tutto era impomatato, pieno di regole e rigidezze, Martin divenne il fenomeno del nonsense, la parodia stessa dello showbiz trattata con arrogante disinvoltura dove il fake it all si trasformava nella metacomicità instaurando una connessione con la sua platea.

Il documentario – nello specifico, la prima parte “Then”, facilmente riconducibile alla sua autobiografia “Born Standing Up: A Comic’s Life” pubblicata nel 2007 – è un tornado di momenti, alti e bassi, tutti intrecciati da una resa grafica accattivante, dove riprese amatoriali dell’infanzia e adolescenza di Martin, si uniscono alle sovrapposizioni di locandine e poster anni 60 e 70 – connubio di realtà e fantasia – senza mai far mancare l’aspetto specifico dello studio che il performer vi apportava. Ci sono fior fiore di appunti nella vita e nella carriera di Steve Martin, preziosi tasselli, l’uno materia per l’altro. Era facile che si domandasse: “Cos’è che fa ridere la gente?” mentre veniva ispirato dai suoi libri di filosofia; “Cos’è che porta le persone a tornare a vedere uno spettacolo?” si chiedeva, mentre rendeva l’arte la sua passione più intima; e ancora “Perché non pensare a dei nuovi sillogismi per il prossimo sketch?” proprio come ne leggeva a bizzeffe dalle pagine di Lewis Carroll.

Da solo, scoglio dopo scoglio, era riuscito a fondare una comunità di persone che si divertivano ed erano felici nel seguirlo, nell’imitarlo, nel renderlo l’evento culturale di cui avevano disperato bisogno; da solo a Los Angeles mentre a New York, un altro gruppo di comici stava facendo lo stesso al Saturday Night Live. Da solo perché così era sempre stato e così aveva imparato a vivere il palco. La solitudine come condizione artistica – il primo comico amato dalle masse e idolatrato al pari di una rock star – e come condizione privata, celando volutamente un animo sensibile e molto più complesso di quel che appariva.

Quando raggiunse l’apice del successo come commediante nel 1980, Steve Martin abbandonò i palchi senza più riproporre il suo spettacolo – forse perché la formula era riuscita e lo scienziato soddisfatto o ancora perché era diventato, non tanto il successo agognato, quanto la mania da evitare. Stava dentro un treno in corsa chiamato Stand-Up Comedy – citando la metafora che egli stesso utilizza sovente e sempre per delineare i cambi repentini della sua carriera. Era giunto il momento di scendere, dunque, e prendere il prossimo.

NOW

Come si può passare dall’esser tanto introverso all’essere se non felice, almeno felicemente tranquillo e in pace con sé stesso? Esiste una parola in ungherese che Steve Martin ci riporta qui: “Pihentagyu” letteralmente “with a relaxed brain, being quick-witted and sharp”. Esattamente come si sente lui ora – e lasciatemi dire, quanta sia la gioia di scoprire che, ogni tanto, le cose belle accadono alle brave persone – dopo una vita, a detta sua, vissuta al contrario, ma che per divergenze inaspettate, lo ha portato dal percepire il solitario Hopper al suo contrapposto, il tranquillo Hopper (non preoccupatevi, ci ritorneremo).

Il secondo “pezzo” che va a concludere il documentario, si rifà ad un altro libro di Steve Martin, il suo più recente e, si può dire, innovativo, dove per tale termine s’intende l’ennesima capacità del comico di rinnovarsi e parlare al pubblico per mezzo di nuovi linguaggi ed espedienti. Scrivo fumetti adesso, dice Martin, ed ecco perché “Now” cambia rotta con una personalità tutta grafite e vignette, ricalcando l’idea di: “Number One Is Walking: My Life in the Movies and Other Diversions”, pubblicato nel 2022. Le didascalie pensate da Steve trovano casa nelle illustrazioni del fumettista – ed amico – Harry Bliss come avviene anche nella scelta di regia modificando il ritmo in qualcosa di più contenuto, quotidiano e famigliare.

Un cambio netto rispetto allo stile – sia grafico che narrativo – dell’episodio precedente, ma che, in fin dei conti, tutto calza e rappresenta Steve Martin. È con la riuscita di un film così poliedrico, che diventa più facile esprimere il suo tipo di camaleontismo emotivo, tanto che viene da chiedersi come lo si dovrebbe davvero inquadrare, un performer simile. Alla domanda: “Chi è e com’è il vero Steve Martin?” nemmeno colleghe e amiche di lunga data, quali Tina Fey e Diane Keaton, riescono a rispondere con esattezza, rendendo veritiero, in parte, quel che si dice in giro; che nonostante decidono di mostrarsi un poco di più al mondo, dev’essere una prerogativa degli artisti, quella di restare enigmatici nel tempo. E con Steve Martin, dall’enigma è facile (se non doveroso) passare alla malinconia che permane i suoi lavori su pellicola – come anche nella sua persona – quasi a titolo testamentario. Sono la tristezza del comico e la consapevolezza oltre il velo di Maya così insite d’aver forgiato spontaneamente le incapacità e le mancanze, da “The Jerk” fino al tanto (ingiustamente) bistrattato musical “Pennies From Heaven”. Quando poi Martin riuscì ad unire il tocco della letteratura classica con i personali rimaneggiamenti moderni, il gioco della risata pensata (anche sul grande schermo) era fatto! “Roxanne” (da Edmond Rostand) tra i più famosi e amati e “A Simple Twist of Fate” (da George Eliot) tra i meno conosciuti, sono solo due degli esempi che possiamo citare dalla sua ispirazione.

Essi hanno da sempre trasmesso – a volte in maniera esplicita – il desiderio ardente di chi vuole farcela e tenta a tutti i costi di proseguire lungo il cammino. Non importa quanta solitudine esso comporta: è un fuoco che non può estinguersi. Così avrà la forza della gentilezza e della risoluzione come chi ha imparato a convivere con un naso improbabile e chi invece, accoglie l’adozione di un’orfana accettando d’aprirsi nuovamente alle gioie della vita. È una malinconia accettata che non limita mai le probabilità, uno specchio della vita privata di Steve Martin e che, stando a Tina Fey, solo una persona riesce a scalfire facendo breccia nella figura misteriosa e silenziosa del comico: ovviamente stiamo parlando di Martin Short.

L’episodio si snoda proprio seguendo la routine di Martin in compagnia dell’amico tra le sessioni lavorative che implicano le scelte delle battute da mantenere o cambiare nei successivi spettacoli condivisi insieme sul palco. Con lui non mancheranno anche semplici slice of life, quali giocare a carte e fare una biciclettata nella soleggiata Santa Barbara e si scoprirà, scena dopo scena, che avvicinandosi ai suoi affetti diventerà più semplice, quasi naturale, comprenderne le derive e gli equilibri raggiunti.

Con la messa in scena del suo “WASP” (short play, drama in atto unico), ci verrà mostrato il suo tentativo di sviscerare e comprendere un’infanzia difficile privata dell’amore e delle validazioni. Traumi persistenti che ancora fanno capolino, con la differenza, adesso, di riuscire a trattarli con la dovuta cognizione e la forza dell’accettazione. Chi avesse pensato, guardando “Only Murders in the Building”, che Charles-Haden Savage e le sue problematiche con il padre fossero un riflesso personale di Steve Martin, avrà qua la sua conferma – dimostrando poi, in maniera commovente, come egli sia riuscito a passarvi oltre, lasciandosi andare e mostrando al mondo, per mezzo artistico, parte del suo vissuto. Qualcosa che non avremmo mai visto nello Steve Martin degli anni 90, una persona che aveva gelosamente custodito la propria collezione d’arte per anni e anni – e condivisa con il mondo solo successivamente, poiché il suo privato e la sua salvezza si erano spostate altrove (non più nei quadri e nelle infinite pennellate di magistrali artisti), combaciando nella figura della moglie e della propria famiglia.

Certamente, da questo Steve Martin a quello descritto sopra, corrisponde l’attuale che trattiene le lacrime quando il ricordo dell’amico scomparso, John Candy, gli accarezza nuovamente i ricordi. Corrisponde con lo Steve che ama farsi prendere in giro da Martin Short e non manca mai di fare dell’ipercriticismo sui loro spettacoli tentando di perfezionarli al limite. Stiamo parlando di un tipo di persona peculiare, rilevante nel suo genere, che si focalizza su qualcosa e si diletta ad impadronirsene come un vero professionista, per poi scartarla non appena ne abbia ottenuto la completa conoscenza e non vi siano altre abilità annesse da scoprire ed acquisire.

Ma è anche l’uomo che insegna a sua figlia come suonare il banjo e le manda video giornalieri quando non può essere presente a casa.

L’esperienza che offre questo documentario – soprattutto se si è cresciuti con lui, nel mio caso – è equiparabile soltanto a quella delle montagne russe in una spirale di variegate emozioni e vedere “STEVE! (martin) a documentary in 2 pieces” diventare l’icona che conosciamo per poi mutare nel sé stesso più intimo e personale, può dirsi al pari di una corsa infinita a chi arriva prima, conclusa con un enorme sospiro al cielo e la gratitudine che gonfia il cuore.

Steve Martin, nel percorso chiamato vita, ha accolto ciò che gli è capitato osservandolo in un modo non del tutto nuovo, ma che fosse innovativo per lui; da un punto di vista diverso, un altro modo d’esistere. È come la “Captain Upton’s House”, dipinto di Edward Hopper del 1926 – guarda caso, altra magistrale metafora che usa per congedarsi da noi. All’apparenza, l’abitazione presente nell’opera sembra isolata e sola, posta su di una collina. È priva di vita pare, ma ciò che ci si racconta, spesso, sta negli occhi di chi guarda. Allora ecco che adesso, se la si scruta con più attenzione, quella casa risulta fremente, vissuta nel suo quotidiano andirivieni; ha la terrazza al sole e le finestre aperte alla brezza esterna. Ci sono persone, dentro quella casa, e al suo interno, sta accadendo qualcosa di positivo, per niente complicato.

 Senza tribolazioni.

It’s just home.

Laura