Luca. Guadagnino.
Non si ripete mai. Mai. Ogni sua nuova creatura è una sorpresa e la scoperta di lati di lui. Queer è probabilmente il film in cui si mette più a nudo, è più vulnerabile e tangibile. Dove oltrepassano lo schermo tutte quelle scelte che rendono il suo cinema suo. La sua capacità di essere riconoscibile e familiare. L’importanza del tocco umano, di conservarne il ricordo. E la sua costante: la messa in scena dei corpi e del desiderio senza mai giudicare i suoi personaggi, la macchina da presa che non indugia troppo sull’intimità a cui abbiamo accesso. Quando è iniziato l’epilogo ho iniziato a singhiozzare consapevole che avrei dovuto lasciare questa dimensione magica in cui lui – come sempre – ha saputo accogliermi. Non saprò mai dare forma a ciò che Luca Guadagnino è per me, gli sarò per sempre grata. Sempre.

Dopo l’assenza forzata per via dello sciopero dei SAG dello scorso anno che ci ha impedito di fare party hard sulle note della colonna sonora di Trent Reznor & Atticus Ross con quello che avrebbe dovuto aprire il festival – Challengers (2024) – Guadagnino fa il suo ritorno sul Lido. Il regista palermitano presenta in concorso all’81a edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia la sua ultima fatica, Queer.

Per oltre dieci anni Guadagnino ha sognato di adattare il romanzo di Borroughs e – come scrivevo per Bones and All (2022) – non avrebbe mai potuto raggiungere questo risultato senza l’esistenza delle sue opere precedenti. Queer è un Guadagnino mai visto, ma anche il ricongiungimento con un Guadagnino familiare e che abbiamo già incontrato. Come già accade con ogni suo film, Queer dialoga con i suoi predecessori, in particolare con Suspiria (2018), in quella dimensione sospesa fra realtà e onirico, in quella danza in cui i corpi si fondono.

La storia di William Lee (Daniel Craig) prende forma nei primi anni Cinquanta a Città del Messico – ricreata negli studi di Cinecittà –, lo vediamo fin dal principio bazzicare in diversi bar fra bevute, uso di eroina e rapporti occasionali. Ed è nella dipendenza da entrambi che è alla ricerca di sé stesso: assume droghe con noncuranza, mentre non limita la sua vita sessuale nonostante sia disgustato dalle sue stesse inclinazioni. Al contrario, Eugene Allerton (Drew Starkey) è una creatura quasi eterea che fluttua per le strade afose del quartiere, catturando l’interesse di Lee.

Quest’ultimo desidera l’affetto del giovane e, malgrado i ripetuti rifiuti, non si dà per vinto, vuole le sue attenzioni, qualsiasi sia la loro natura. Lee è quasi autodistruttivo. Cerca di afferrare qualcosa che non potrà mai essere suo, come quando immagina più volte di toccare Allerton in uno dei miei momenti preferiti del film: l’ologramma di Allerton che cerca di accarezzare Lee mentre i due sono al cinema. È stato così inaspettato che ricordo nitidamente il mio respiro mozzato mentre la magia prende forma davanti ai miei occhi increduli, pensando a quante volte ho esitato di fronte al desiderare ardentemente che la mia pelle entrasse in contatto con quella di qualcun altro.

Poi queste immagini diventano realtà, Allerton tocca effettivamente Lee, malgrado alle volte quest’ultimo sia respingente. Anche se in realtà Eugene sta sfuggendo da sé stesso, dalla sua paura di abbandonarsi a questa connessione con l’altro perché significherebbe accettare di scendere a compromessi e uscire dalla propria comfort zone. Abbiamo quindi di fronte due persone destinate a stare insieme, ma che si sono trovate nel momento sbagliato. E il cuore di Queer sta tutto qui, in questa struggente consapevolezza che esistono due persone consumate da un amore il cui tempismo rema loro contro.

Guadagnino ha in gestazione questa storia da diciotto anni. Legge per la prima volta Queer a diciassette anni e da quel giorno sogna di costruire mondi attraverso il cinema. Adattare un romanzo così complesso come quello di Borroughs non è semplice, eppure lui riesce nell’impresa e lo fa anche fedelmente, grazie anche all’ormai fedele penna dello sceneggiatore Justin Kuritzkes. Il racconto non segue un percorso lineare, è frammentato e offuscato, disorienta e confonde, trattandosi di un flusso di coscienza scritto sotto l’effetto di sostanze: le allucinazioni prendono poi forma su pellicola in immagini che lasciano il segno. E necessario citare il grande montatore Marco Costa, che confeziona ancora una volta un lavoro eccelso; così come Sayombhu Mukdeeprom, la cui fotografia è poesia per gli occhi.

Inquadrature che catturano i corpi sudati fatti di desiderio e seduzione; la pelle che si cerca, sfiora ed evita; gli sguardi che inchiodano e studiano. Forse l’unica critica che mi sento di smuovere è che lo sporco della dipendenza che emerge dalle pagine un po’ si perde nel film, quasi come se la rappresentazione dell’uso delle droghe sia edulcorata nonostante si percepisca il degrado.

Guadagnino ancora una volta dimostra di saper dirigere i suoi attori: un Daniel Craig vulnerabile, commovente e a tratti straziante in quella che è la performance migliore della sua carriera, meritevole di ricevere la Coppa Volpi. Un ruolo complesso, difficile da comprendere e restituire sullo schermo, il lavoro di Craig è impressionante.

E notevole è anche la prova di Drew Starkey, in cui Guadagnino ha colto il grande talento e con grande generosità lo ha condiviso con il pubblico. Credo che per creare un’opera del genere sia necessario riunire persone dotate di grande sensibilità ed empatia. Guadagnino ha il dono di saper ritrovare queste caratteristiche nelle persone con cui decide di collaborare.

E per quanto complesso orientarsi nell’irregolarità del racconto, viene naturale rispecchiarsi nella disperazione dei personaggi, smarriti e alla ricerca di un’umanità nelle zone più oscure. Eppure, come Guadagnino stesso ci insegna: il cinema non ha le risposte perché coltiva il dubbio. Quindi anneghiamo insieme a questi uomini – guidati da un donna, l’immensa Lesley Manville –, mostriamo le nostre fragilità, desideriamo, ci interroghiamo, cerchiamo un contatto e amiamo, seguendo il corso degli eventi in una completa assenza di giudizio.

E alla fine ci lasciamo cullare dalle note commoventi della canzone di Trent Reznor & Atticus Ross (dream team ormai), le cui parole provengono da uno degli ultimi scritti di Borroughs… ma oltre alle loro tracce inedite è incredibile e minuziosa la scelta della colonna sonora non originale, le cui canzoni rendono già cult tante, tantissime, scene a partire dai titoli di testa accompagnati dalla versione di All Apologies di Sinéad O’Connor.

“Lee c’est moi”. Ed è così che Guadagnino si concede a noi, dolce e delicato, consegnandoci la sua opera più intima con la grande passione che lo contraddistingue.
Ad aprile in sala con LuckyRed.
Marika
